Da “L’ira della rosa. Monologo da un non-luogo” di Ianus Pravo

… che poi è la carne invece che si fa Logos, non è il contrario, però chi può ha la facoltà di dormire, la resurrezione consola gli afflitti, poi c’è il sonno, per affliggere i consolati, la serenità è una muffa sul sangue, la serenità del lamento che è l’Italia, poi vi lamentate, ma togliamoci di mezzo, ci piacciono troppo i margini, perché sono a contatto con l’osceno, coprire di rose un corpo vivo e, al suo risveglio, osservare l’agitazione delle rose, quando il senso tossisce sputa il catarro dell’immagine, il ricordo uccide gli istanti, uno dopo l’altro, ha bisogno di inanimato per afferrarsi alla stabilità di una bara,

via tutta la bocca, gli cancello le labbra col nastro adesivo, è seduto su uno sgabello di vimini, le mani dietro la schiena e i piedi legati, i suoi mugugni mi infastidiscono ma sempre meno della sua precedente vociferazione, sollevo la ribalta della botola, ne estraggo la borsa, fisso per un attimo i suoi occhi, occhi sbarrati sopra la linea del nastro adesivo, bianca sul nero della pelle, faccio scattare il lucchetto della borsa spalancandone l’apertura, vi affondo le mani e ne rovescio il contenuto ai piedi dell’uomo, le mazzette di banconote ruscellano come pugni sul pavimento, spezzo gli elastici che stringono ognuna di esse, cospargo il denaro sulle assi di legno marcio e vi verso un fiotto di benzina da una tanica trovata nel ripostiglio, sfrego un fiammifero sulla cerniera dei miei jeans e lo getto in fiamma sul tesoro dello spacciatore di Neves Bendinha, si getta di lato, rotola sul fianco per sfuggire alla vampata, mi piego su di lui coprendogli gli occhi con un altro pezzo di nastro adesivo,

mugugna più forte, senza la bocca e senza gli occhi, a Luanda mi lascio alle spalle una fortuna e un uomo senza bocca e senza gli occhi, chiudo la porta alle mie spalle, e in strada, intorno alla Volkswagen con cui voglio raggiungere l’aeroporto internazionale uno sciame di ragazzini si scinde in due vortici ronzanti appena punto la Beretta sul centro del nugolo, il nugolo che si riunifica poi ad alcuni metri dall’auto, la strada sterrata è limitata su un fianco da uno stretto canale di scolo quasi intasato dall’immondizia,

nella mia casa, nel quartiere del Raval, davanti allo specchio, mi stendo col pennello il cerone sulla faccia, faccio sparire nel bianco, sulla guancia destra, il tatuaggio del serpente avvitato sull’ascia, e sulla guancia sinistra le macchie della malattia, una stesura inaccurata, grumi di bianco punteggiano come buchi rigonfi i luoghi di sparizione dei lineamenti, via tutta la faccia, tra l’arsi della fermezza e la tesi dell’infermità, la sfacciatezza, tra Castore e Polluce lo specchio, a Luanda mi lascio alle spalle una fortuna e un uomo senza bocca e senza gli occhi, chiudo la porta alle mie spalle in strada, intorno alla Volkswagen con cui raggiungere l’aeroporto internazionale, uno sciame di ragazzini si scinde in due vortici ronzanti quando punto la Beretta sul centro del nugolo, e si riunisce poi ad alcuni metri dall’auto, pulsa sullo spazio che lo separa da me, senza riorientarsi,

la strada sterrata limitata su un fianco da uno stretto canale di scolo quasi intasato dall’immondizia, i muri delle case s’inclinano verso la strada come forzati a un crollo imminente, il mio volto truccato, Raval uno e trino, ventre, ferita e nudità, il mio volto truccato è il congelamento del crollo del mio volto, il mondo dello specchio è piatto, di una superficialità unanime che, senza voce, mi respinge gli occhi al tatto insistito sulla inadeguata stesura del cerone nella controimmagine che io sono, …

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