“tre inediti” di Luca Vaglio

Farsi cullare dal dondolio,
dal movimento oscillatorio,
che per un insieme di regole,
di leggi della meccanica
e, in fondo, per natura,
governa e disegna
l’incedere dell’autobus
che dalla stazione di Milano
va all’aeroporto di Orio al Serio,
lo spirito libero, pacificato,
godere di questo interregno,
di un trasporto minore
dove nutrire l’attesa
del viaggio che sarà,
guardare con un’indulgenza
che imita e sfiora l’amore
il cielo opacizzato dai vetri
sporchi e il tessuto sintetico,
bluastro e ormai abraso dei sedili.

*

Camminando di notte
per il marciapiede di via Pacini,
ripenso al barista turco,
che a volte fa finta
di essere brasiliano,
e che ancora più spesso
ama ricordare di aver vissuto
a lungo a Rio de Janeiro,
che lavora nella pasticceria etno-chic
di via Ampére, dallo staff nuovo,
internazionale e gentile:
ieri sera cercava di vendermi
un trancio di pizza con le patate
– anche se volevo soltanto
un caffè americano – ,
sperava forse in un mio gesto
empatico, poiché la pizza
era ancora tutta intera,
e di lì a non molto
sarebbe finita nel sacco
della spazzatura: di sicuro,
agiva così per una ragione sua,
eppure, facilmente, simile,
o quasi uguale
a quelle che muovono
e confondono il mondo,
alle cose di tutti,
grandi e piccole,
alla paura, al male,
all’amore, al desiderio,
infinito e miserabile,
che da sempre, dall’alba
di ogni tempo
ci fanno dire,
ci fanno fare,
ci fanno andare.

“Milano, tangenziale est” (Foto di Luca Vaglio)

In quel doppiofondo d’estate dei secondi anni dieci del nuovo secolo, o millennio, nei giorni liberi e luminosi nei quali mi trovavo, o stavo, a Liverpool, ogni cosa sorrideva, e mi accoglieva, le ore erano calme e dolci, sia quando il vento ibridava l’atmosfera di gocce di acqua di mare e il sole accendeva i colori delle porte delle case georgiane e il verde dei prati, sia quando il cielo era oscurato da nuvole gonfie di elettricità e di pioggia, e i gabbiani volavano bassi, oppure si posavano sui tetti o sui lampioni. Nell’albergo-ostello-casa-rifugio dove alloggiavo le notti erano lunghe e ricche di parole, si conversava, senza esito né pause, degli albori del rock britannico, di partite di calcio memorabili e favolose e di altre magie e manie. Nei rari momenti in cui mi concedevo il tempo di pensare, in cui avevo bisogno di cercare una distanza da tutta quella bellezza, da quella perfezione terrestre e spirituale, da quella gioia così immediata e profonda, così superficiale e vera, forse perché non le bastavo, perché a tratti ne ero saturato e superato, non potevo che chiedermi, non sapendo come rispondere, se fossi io, o il mondo, a fare quel miracolo.

“Liverpool, Albert Dock” (Foto di Luca Vaglio)

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